Il 2023 si avvia concludersi potendo vantare il titolo di “anno più caldo della storia”. Nei bilanci conclusivi degli ultimi 12 mesi si inseguono immagini di alluvioni, incendi, siccità, ondate di calore, tutti sintomi di un riscaldamento globale che accelera anziché rallentare. Ma il 2023 non è stato solo foriero di cattive notizie per il clima.


L’abbandono dei fossili

La buona novella più importante è arrivata in extremis, a metà dicembre, con la conclusione di Cop28, la Conferenza Onu sul clima tenutasi a Dubai. Nel testo finale, per la prima volta in 28 edizioni, si citano esplicitamente i combustibili fossili e si richiede che già entro il decennio in corso si avvii una transizione per l’abbandono di carbone, petrolio e gas, da completare nel 2050. Si auspica la triplicazione delle rinnovabili installate e il raddoppio dell’efficienza energetica. Naturalmente il documento contiene anche molti punti controversi, a cominciare dalla possibilità di utilizzare nei prossimi anni “carburanti di transizione”, che molti individuano nel gas naturale, o dalla mancanza di una tempistica stringente e di controlli sulla implementazione della “transition away” dai combustibili fossili.

La protezione degli oceani

Altro risultato storico è stata l’approvazione, nel maggio scorso, di un trattato per proteggere la biodiversità degli oceani al di fuori dei confini nazionali. Hanno detto sì 190 nazioni, che hanno trovato un accordo dopo quasi due decenni di trattative. Attualmente risulta tutelato solo 1,2% dei mari al largo delle coste. E il trattato, che l’Onu ha reso operativo a giugno, consentirà alle nazioni di creare nuove aree di protezione in alto mare, anche se potrebbero volerci anni, considerando i tempi di ratifica dei singoli governi e la successiva individuazione delle aree da tutelate. Tuttavia l’accordo è una tappa fondamentale verso la protezione del 30% delle terre e dei mari del Pianeta entro il 2030, obiettivo annunciato al vertice delle Nazioni Unite sulla biodiversità alla fine del 2022.

La difesa dell’Amazzonia

Nei primi sei mesi della sua presidenza, il leader brasiliano Luiz Inácio Lula ha rivendicato un calo del 50% nella deforestazione dell’Amazzonia rispetto al boom registrato negli anni di Bolsonaro. Le autorità brasiliane hanno anche cacciato migliaia di cercatori d’oro illegali dalle terre indigene. E promettono di porre fine alla deforestazione entro il 2030. Buoni propositi green che si scontrano con i piani del governo di realizzare in Amazzonia un progetto ferroviario su larga scala e un’autostrada lunga 540 miglia. Inoltre il Brasile, produttore di petrolio, ha annunciato di voler entrare nell’Opec come osservatore. Investito dalle critiche, Lula si è difeso: “Penso che sia importante per noi partecipare all’Opec+, perché dobbiamo convincere i paesi produttori di petrolio che devono prepararsi alla fine dei combustibili fossili”. Se ne riparlerà certamente alla fine del 2025, quando la cittadina amazzonica di Belém, proprio per volere di Lula, ospiterà Cop30.

Fin qui le buone notizie. La cattiva è che quasi certamente non basteranno a invertire la rotta, a tenere il riscaldamento del Pianeta al di sotto degli 1,5 gradi. A impedire che il 2024, il 2025 e gli anni a venire, battano i record di temperature del già caldissimo 2023.

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